Rio de Janeiro, inverno 1982. Temperatura media 32° C. Spiagge sempre affollate di corpi al sole. Inflazione media: 20% al mese. Un caos monetario che produce angoscia, oltre a situazioni assurde, risibili. Il prezzo della birra raddoppierà dopo la mezzanotte, dice il cameriere. Pochi minuti dopo bicchieri e bicchieri di birra calda si accumulano sotto gli occhi rassegnati dei clienti, traboccanti.
L'ultimo generale-presidente, Figueiredo, si prepara a lasciare il potere dalla porta di servizio del Palazzo del Planalto. Dietro ai suoi emblematici occhiali scuri il dittatore chiede al popolo di essere dimenticato. La sua richiesta sarà accettata con piacere. Nessuno scriverà più al generale. Mentre aumenta il volume del battibecco democratico, alcuni imprevidenti rimarranno sordi per sempre. E la paura, come un tappo ben compresso, è liberata dalla sua gabbia di fil di ferro ed esplode in un bagno di spuma dolce.
Bairro di Ipanema. Via Paul Redfern, 32. Il professor Afrânio Coutinho, un ottantenne ormai quasi cieco, trova a tentoni la serratura del portone di casa, o meglio dell'ex-casa. Per sé aveva conservato soltanto la biblioteca al terzo piano - la più completa biblioteca privata di letteratura del paese, degna del fondatore della moderna critica brasiliana - perché gli altri due lui stesso li aveva trasformati proprio in quel 1982 in aule, sala video, sala lettura, segreteria e nuovi bagni.
Adesso il vecchio professore sta salendo le scale con difficoltà, anticipando ogni passo con la punta del suo bastone. Arriva all'ultimo piano. È tardi, e lui è solo e stanco in mezzo a tanti libri... Stende la brandina nello spazio preciso tra due mensole rigurgitanti e si sdraia - come Peter Kien, il sinologo alienato dell'Auto da Fé di Canetti - nel territorio che il corpo di un saggio è costretto a rubare ai propri libri. E lì lui dorme. Subito dopo, ai piani inferiori, avrebbe iniziato a funzionare la sua creatura: l'Officina Letteraria Afrânio Coutinho. La prima del genere in Brasile. Un antico progetto che gli era costato la casa e che funzionava mentre il suo mentore dormiva.
Come coordinatore dell'Officina, il professore aveva chiamato uno scrittore di 27 anni, appena tornato in Brasile per ricominciare la vita in quel nuovo, sconosciuto clima di libertà, e che portava con sé dagli Stati Uniti l'esperienza dei "Creative Writing Workshops". Quel giovane scrittore ero io. Di fronte a me, davanti al mio incontenibile entusiasmo, oltre al gran caldo, alla birra sempre più cara, al generale-presidente che preferiva i cavalli agli esseri umani, ecco una nuova domanda, la cui risposta il vecchio professore aveva delegato, per tedio o per stanchezza, al suo giovane e fidato scudiero: "Dopotutto, a che serve un Laboratorio di Scrittura Creativa?".
Ed è ancora questa la domanda che, tanti anni dopo, nell'Italia mediatica e consumistica di fine di millennio, sento formulare con insistenza. E come un profeta dell'ovvio, tenterò di rispondere ancora una volta.
Prima, però, devo rispondere a un'altra domanda: "A che serve la narrativa?".
È come chiedersi a che serviamo noi esseri umani, giacché ci confondiamo con l'atto narrativo, fondatore dell'umanità, e che, come noi, è fine a se stesso, non solo mezzo o strumento. La necessità di narrare è un organo vitale della nostra biologia. Di fatto, non esiste popolo che non abbia la sua letteratura. Storie e canzoni si trovano dappertutto. Sono fioriture sempre presenti laddove il fatto culturale metta radici. Sono gli scrittori, come ben ricordava Ezra Pound, che mantengono efficiente il linguaggio. Ovvero, mantengono la sua precisione e la sua chiarezza. Per questo se la letteratura di una nazione entra in declino, la nazione si atrofizza e decade. Tutto dipende dal linguaggio per essere chiari. Viviamo in un mondo di simboli, di rappresentazioni.
Provengo da un continente dove la questione del ruolo della letteratura ha ormai da tempo oltrepassato la retorica e l'estetica per assumere un'inedita drammaticità e una missione storica decisiva. Durante gli anni in cui il fantasma della tirannia spaventava i nostri paesi, furono gli scrittori la riserva etica delle nostre società. Furono loro che nei racconti, nei romanzi e nelle poesie non permisero che i principi umanitari e i valori della civilizzazione fossero atrofizzati da una ben pianificata banalizzazione della tortura, della censura e delle sparizioni. È stata la letteratura, in quell'epoca ancora così recente, l'unico antidoto possibile contro l'orrore che era disseminato tra i brasiliani e gli ispano-americani. E fortunatamente l'antidoto è stato più forte del morbo.
Un esempio, quello di Ernesto Sábato, illustra bene questa missione.
Dopo gli "anni di piombo", l'Argentina aveva istituito un tribunale per giudicare i militari accusati delle terribili atrocità commesse contro i loro oppositori. Ma nessuna personalità pubblica del paese era considerata abbastanza super partes o con la statura morale adatta a presiedere un tribunale così importante. Nessun sacerdote, nessun politico, nessun magistrato ispirava il grado di rispetto od otteneva il consenso necessario per tale carica. Nessuno, eccetto il vecchio romanziere, che infatti ricevette a casa sua la visita di una commissione che riuniva tutte le correnti ideologiche del paese, da un estremo all'altro dello spettro politico: portarono a Sábato l'invito ad assumere la presidenza del tribunale.
La letteratura è l'arte per eccellenza, perché è costruita su un'altra arte, quella che crea le parole che nominano le cose. Essa è, infine, l'arte matrice, la seminatrice di mondi. Dunque, perché la letteratura non dovrebbe meritare l'impegno preparatorio, l'ambiente formatore, il nucleo di sviluppo sul quale il teatro, la musica, la danza, il cinema e le altre arti plastiche hanno sempre potuto contare? Perché gli scrittori in fieri dovrebbero essere abbandonati alla propria sorte, ad un autodidattismo aspro e confuso, come se fossero uova di tartaruga depositate in una qualsiasi spiaggia deserta, nell'attesa di essere covate dal sole?
In ogni modo, i workshops non sono solamente incubatrici di talenti. Sono anche lo spazio privilegiato dove si trasmettono e si scambiano le esperienze, dove il processo creativo, con i suoi blocchi e i suoi capricci, è investigato sin dall'origine, dove un'esuberante tradizione di costruzione di personaggi, d'intrecci, di stili, di punti di vista narrativi, di generi e idee-forza è esposta e spiegata. E, più d'ogni altra cosa, è lo spazio dove il giovane scrittore incontra un lettore speciale, esperto ed attento alle sue possibilità espressive e al suo potenziale di sviluppo. Un lettore-maestro, uno specchio rivelatore che, attraverso l'analisi dei testi dello scrittore-alunno, gli restituirà un'ampia coscienza del suo stesso processo, una coscienza che l'offuscamento provocato dal coinvolgimento emotivo e intellettuale con se stesso gli impedisce di acquisire da solo.
Oltre a questo, quale altro luogo più adeguato di questo per discutere le tendenze della letteratura? Questioni emergenti e nebulose, come quella sul postmoderno, la questione della lucidità, del delirio e della pazzia; delle infinite forme che assume l'inconscio, questa nostra fabbrica di sogni che non cessa di produrre meraviglie. La questione dei massmedia, del livellamento verso il basso dei concetti, dell'imposizione di false necessità, del ronzio costante della pubblicità e della fantasmagoria di immagini senza senso o con il senso adulterato dai commenti con i quali si tenta di adornarle. La questione della solitudine e dell'isolamento, sia compulsivo che volontario. La questione della nascente dissoluzione dei generi artistici in un caos polimorfo di espressività, dove, chissà, le tecniche e i generi saranno ricreati ad ogni opera, o forse non esisteranno più le opere, ma solamente epifanie dello spirito materializzate in infinite ed imprevedibili forme, abolendo per sempre la frontiera, già oggi così poco chiara, tra vita e opera, tra l'essere e il dire, tra essenza e discorso.
Che cosa può risultare da tutta questa preparazione? I futuri scrittori, o per lo meno quelli di maggior talento, compieranno una delle funzioni primordiali dell'arte, che consiste nel formulare una domanda in un tempo che forse non sarà in condizioni di soddisfarla; in questo modo essi stagioneranno le utopie ed esorcizzeranno i pericoli del futuro. Così, sostenuto da un livello di professionalità che non ricorda per niente lo stereotipo dell'artista fragile e lontano dalle decisioni importanti, il fenomeno della creazione conterrà in sé il necessario per divenire nel prossimo secolo uno dei prodotti più nobili e socialmente valorizzati.
Allo stesso modo, toccherà probabilmente agli intellettuali idealizzare e portare alle estreme conseguenze le pressioni politiche per la correzione dell'ordine sociale perverso che ha dato loro origine. Come nell'antica favola, l'arte, il "brutto anatroccolo" del mondo della tecnologia, si trasformerà rapidamente nel "cigno" del mondo dell'informazione. Un cigno selvaggio, speriamo, e non solo un animale ornamentale.
Così, nel vedere il futuro infiltrarsi di soppiatto nelle maglie del presente, non posso smettere di ammirare la successione delle decadi, le loro trame e fantasie, e ricordare quel 1982, marcato da due immagini indimenticabili: gli occhi limpidi, seppure ciechi, del vecchio professore, e gli insondabili occhiali neri del dittatore.